Padre Arice su Avvenire commenta il Messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale del Malato 2024
Padre Carmine Arice – Avvenire di martedì 16 gennaio 2024
Visitando il Cottolengo di Torino nel 2015, Papa Francesco esortò a sviluppare degli «anticorpi» che contrastassero il considerare la vita fragile e compromessa degli anziani, dei disabili e dei malati gravi come «non più degna di essere vissuta». Tra gli anticorpi necessari per sconfiggere la conseguente cultura dello scarto, dell’indifferenza e dell’individualismo, nonché il mito dell’efficienza e del profitto, denunciati apertamente nel Messaggio della Giornata mondiale del Malato 2024 come causa di solitudine e di abbandono del paziente, il Papa indica quello fondamentale: la relazione interpersonale come presenza, vicinanza compassionevole, tenera nei tratti e fedele nell’agire. Certo la competenza professionale è necessaria, ma non basta – direbbe papa Benedetto XVI – perché i malati sono persone e le persone hanno bisogno anche dell’attenzione del cuore. La relazione è dimensione fondamentale dell’esistenza senza la quale è impossibile vivere e generare vita, e il Messaggio del Papa lo ricorda fin dalle sue prime battute, quando fa riferimento all’atto creativo dell’uomo pensato come «essere in comunione ».
Comprendiamo allora che, nel percorso di cura di una persona malata la relazione interpersonale non si aggiunge come gesto di benevolenza di qualche operatore un po’ più buono, ma è parte essenziale dell’alleanza terapeutica operatori sanitari e paziente – con i suoi familiari – nonché tra il personale di cura stesso. La famosa legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento del novembre 2017 sentì il bisogno di specificare che la relazione con il paziente è tempo di cura, e questa mi pare un’osservazione importante se però è accompagnata da un’altra puntualizzazione, e cioè che essa è parte di ogni gesto terapeutico e di ogni comunicazione con il paziente e non un tempo aggiuntivo, quasi fosse un ulteriore ingrediente. Il dolore del malato «isola assolutamente, ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro», ha insegnato magistralmente Emmanuel Lévinas; per questo la relazione è la prima dimensione della cura. Infatti, quando in presenza di altri non si percepisce di essere oggetto di attenzione sembra di non esistere. E se questo è vero per tutti, tanto più lo è per i malati. Non c’è nessun protocollo che possa indicare come instaurare relazioni sane con i pazienti e i loro familiari, e non c’è nemmeno regolamento aziendale che possa andare oltre all’esortazione di concorrere a costruire un ambiente di lavoro cordiale tra i curanti. Il grande filosofo Hans Jonas ci direbbe che solo un’etica della responsabilità e una corretta antropologia della cura – ben evidenziata nel Messaggio del Papa – sono il presupposto perché ci sia davvero la necessaria considerazione alla relazione interpersonale. Infatti, «l’attenzione, in quanto atto intenzionale, è decisa dal grado di valore che si assegna all’altro», come ha scritto Luigina Mortari.
La relazione è epifania di valori, ma soprattutto è manifestazione della considerazione che si ha per l’altro. Possiamo concludere che il tema del Messaggio di quest’anno è un invito a considerare la capacità di prenderci cura dei malati nella loro globalità giacché non vi è gesto che non sia anche comunicazione e veicolo del valore che si dà all’altro, ed è altresì un invito a verificare la qualità delle nostre relazioni. Non ci sono protocolli che possono indicare quali percorsi intraprendere per instaurare sane relazioni terapeutiche, c’è solo una coscienza e un’etica professionale che ci può dire se la relazione con il paziente è stata empatica o apatica, se si è avuto la «capacità di sentire il sentire dell’altro e cogliere l’esperienza vissuta estranea », come insegna magistralmente Edith Stein, o se l’altro si è sentito solo come un oggetto di attenzione. Non ci sono indicatori che possono dire se siamo stati, come Dio è per noi, «una presenza che accompagna, una storia di bene che si unisce a ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce» (Francesco, enciclica Lumen fidei, 57) oppure se l’indifferenza è cifra dell’atto terapeutico posto in atto, seppur accompagnato da un interesse medico scientifico alla sua patologia.
Padre generale della Piccola Casa della Divina Provvidenza