“Beati i miti, perché erediteranno la terra”! (Mt. 5, 5)
Pubblichiamo l’omelia che il padre generale della Piccola Casa, don Carmine Arice, sabato 13 giugno ha pronunciato nella Novena per la festa della Consolata nel Santuario torinese.
“Beati” è la parola che risuona ogni sera alla novena della Vergine Consolata di quest’anno, a ricordarci che siamo stati creati per la gioia e che ad essa siamo chiamati. La prima testimonianza che rende credibile la nostra vita cristiana e consacrata, cari fratelli e sorelle, è proprio la gioia che nasce dall’amicizia con Dio e che è cantata da Maria nel magnificat: “il mio spirito esulta in Dio mio salvatore”.
Ci sorprende, questa sera, la via della beatitudine oggetto della meditazione di quest’oggi: la mitezza. Nel tempo in cui Gesù ha pronunciato questa beatitudine, in Palestina, trionfava la forza. I romani avevano realizzato un impero che sembrava veramente possedere la terra. Ma lo avevano ottenuto con la prepotenza e con la violenza. Cosa non faceva Roma per manifestare la sua grandiosa potenza! Non per niente il più grande disastro del ‘900, il dominio nazista, aveva visto proprio nell’impero romano il modello a cui ispirarsi.
In un contesto in cui non si aveva timore di imporsi con forza e violenza, Gesù proclamò: “Beati i miti, perché erediteranno la terra”. Qualcuno intuì il pericolo che costituiva l’annuncio di Gesù e dei cristiani e così… sono iniziate le persecuzioni!
Forse il nostro tempo non è tanto diverso. Viviamo in una società tanto competitiva che osanna i vincenti e non di rado trascura i più fragili, si sente poco parlare di mitezza e se se ne parla, spesso la si confonde con la debolezza, l’accondiscendenza, l’ingenuità. Basta vedere un dibattito televisivo per farsene una ragione. Ecco allora l’invito di Gesù rivolto anche a noi: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29).
La mitezza, frutto dello Spirito, è una virtù che ci rende capaci di entrare in relazione con gli altri nel modo giusto, e per farlo dobbiamo guardare a Gesù mite ed umile di cuore, cioè a come Lui ha vissuto i rapporti con il prossimo. Il Figlio di Dio ha avuto sempre un atteggiamento di profondo rispetto verso tutti, verso il giusto, verso il peccatore, verso coloro che lo hanno rifiutato e coloro che lo hanno accolto. Il suo essere e dire la verità non è mai stato accompagnato dalla prepotenza di chi si impone con la violenza e con la forza.
Non ha mai imposto nulla a nessuno, neppure il bene. Sovente le sue proposte erano precedute dall’espressione “se vuoi” come al giovane ricco (cfr. Mt 19,21). Non ha avuto timore di seminare su ogni tipo di terreno (cfr. Mt 13,1-23) pur sapendo che solo alcuni lo avrebbero accolto. Non ha avuto timore di sprecare il seme, e non ha costretto nessuno ad accoglierlo.
Non ha fatto scendere il fuoco sopra la Samaria che non lo ha accolto e non l’ho ha permesso di fare nemmeno a coloro che con questo gesto volevano mostragli il loro affetto. Anche gli Apostoli, pur frequentando il Maestro, hanno fatto fatica a imparare la mitezza di Gesù.
Cari fratelli e sorelle, e in particolare cari religiosi e religiose: non è sufficiente stare con Lui per essere come Lui e avere il suo cuore. Occorre far propri i suoi sentimenti che, lungi dal sentimentalismo sdolcinato, sono un invito all’amore senza condizioni.
La mitezza di Gesù raggiunge il suo culmine nella passione, quando si presenta “come un agnello mansueto portato al macello” (Ger. 11, 19). Tutti gli interrogatori a Cristo narrati dal Vangelo della passione sono una testimonianza di forza violenta che si scontra con la forza della mitezza del Figlio di Dio schiaffeggiato, deriso, percosso, insultato, beffeggiato… la sua strana difesa, di uomo che non alza la voce, disorienta Pilato che profeticamente afferma: ecco homo! Sì davvero Egli è Colui che manifesta l’uomo che ama incondizionatamente, che mostra cosa significa essere veramente uomo.
Potremmo domandarci: chi è che si mostra veramente libero nel racconto della Passione? Gesù che non si fa condizionare dalla malvagità per continuare a consumarsi d’amore fino alla fine o quanti, per affermare la loro vittoria, hanno bisogno della violenza? Chi è che esce veramente sconfitto da questa vicenda?
Il paradosso delle beatitudini ci dice che se veniamo sconfitti amando, abbiamo vinto! Non sembri retorica ricordare che l’ultima parola di Gesù in croce, secondo il vangelo di Luca è: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. (Lc 23,34).
Con questa celebrazione vespertina iniziamo anche la celebrazione della Solennità del Corpus Domini che ci invita a rinnovare la nostra fede nella presenza reale di Gesù nell’Eucarestia. Ebbene, fermiamoci per un momento a considerare la materia del sacramento: un semplice pezzo di pane per essere mangiato da tutti e nutrire la vita del credente. Il sacramento capace di trasformare l’uomo in Dio – come afferma san Tommaso d’Aquino -, capace di dare la vita eterna a quanti se ne nutrono degnamente, come ci ha ricordato il Vangelo ascoltato, non ci è dato in una forma che abbaglia la nostra vista per la sua potenza e che attira l’attenzione per la sua grandiosità, ma in un segno tanto comune, fragile, umile, semplice e disponibile a tutti, anche di coloro che vi si accostano per profanarlo. Mirabile sacramento, solo quanti liberamente lo accolgono, con fede ne sperimentano la forza, ma il suo dono è per tutti!
Cari Fratelli e sorelle chi ha il coraggio di iniziare a percorrere radicalmente la via della mitezza, accettando il paradosso delle beatitudini, non torna più indietro perché sperimenta che “i miti godono di una grande pace” quella che viene dalla verità, cioè dall’amore, sperimentando che è il loro cuore guarito e rappacificato con sé stesso e con la propria storia che porta la mitezza. Il problema non è fuori di noi ma in noi!
Ecco di cosa ha bisogno oggi il mondo. Di uomini disposti ad andare fino in fondo a vivere il di più del Vangelo che non sta soprattutto nelle opere straordinarie che possiamo fare, ma nella capacità di mettere l’antidoto della carità là dove c’è il veleno dell’egoismo e della violenza. La mitezza nasce da un cuore che ama, non da un calcolo intelligente, ma senza la regia dell’amore. Cosa è intelligente la vendetta o il perdono? Le nostre durezze che vogliamo mascherare di giustizia o l’amabilità che conquista i cuori?
Il mite è forte ma non prepotente; è amabile ma non debole perché “mitezza – scrive san Tommaso d’Aquino – dice innanzitutto capacità di possedere sé stessi, dominio dei propri istinti, dei propri nervi, di ogni reazione di animosità e sdegno che le circostanze, le avversità, le contrarietà determinano perché l’ira per il suo impeto impedisce moltissimo nell’uomo di giudicare liberamente la verità”. (S Th. II, II,157,4).
Sì, i miti possederanno la terra perché il mondo è trasformato da coloro che sono miti, da coloro che sono capaci di dialogo e che non hanno bisogno di essere violenti per affermarsi. Nella vita della Chiesa, dopo Gesù, coloro che hanno maggiormente segnato la storia sono i santi della mitezza, basta ricordare San Francesco d’Assisi per fare un nome. Ai miti è promessa la terra, la patria celeste di cui la “terra promessa di questo mondo” ne è un simbolo e un annuncio.
In questa novena della Consolata, qui nel suo Santuario, accogliamo l’invito di Maria a fare quello che ci dice il Suo Figlio perché il segreto della mitezza è l’amicizia con Cristo, l’unione con Dio. Lei, la prima discepola, ci direbbe che solo Dio può darci quella fiducia nella sua Provvidenza Divina e la conformità ai divini voleri, per cui, qualunque cosa accada, non si perde la pace interiore. Per questo la presenza della Madre del Signore non si ferma ai piedi della croce, ma continua nel Cenacolo, con gli apostoli in preghiera in attesa dello Spirito Santo. Se avremo con Cristo la stessa amicizia e la stessa fede di Maria allora la mitezza abiterà il nostro cuore e la beatitudine sarà un’esperienza stabile.
Aiutati dalla sua intercessione e dalla sua preghiera ripetiamo sovente una invocazione che ha accompagnato generazioni di credenti: “Gesù mite e umile di cuore, rendi il mio cuore simile al tuo”.
Padre Carmine Arice