Pubblichiamo l’intervista che il padre generale della Piccola Casa della Divina Provvidenza don Carmine Arice ha rilasciato al settimanale diocesano La Voce e il Tempo di domenica 8 settembre 2019.
Don Carmine Arice, padre generale della Piccola Casa della Divina Provvidenza, con il Parlamento fermo sulle norme sul Fine-vita, si aprono le finestre sulle nuove frontiere dello stare con gli altri quando hanno dei problemi. E sono finestre su tutto il mondo.
Disabilità, malati cronici, malati terminali: cosa manca nei nostri territori per permettere di vivere con maggiore serenità?
C’è ancora tanta strada da fare. La domanda è grande, i bisogni aumentano, ma le risposte e le risorse messe a disposizione sono ancora insufficienti. Penso in particolare alle persone anziane affette da malattie croniche e invalidanti e penso al loro bisogno di avere non solo dei “servizi” alberghieri e assistenziali ma di essere raggiunte da vere relazioni di cura integrale. La serenità – soprattutto nelle persone ferite – senza relazioni interpersonali che aiutano a trovare un senso nella vita è un’utopia!
Cosa manca per vivere con serenità e con più salute?
Certamente più infermieri e operatori socio assistenziali sia nelle strutture che a domicilio. La CEI ha avviato l’esperienza dell’ «infermiere di parrocchia» e Alba è una delle tre diocesi italiane a sperimentare questo percorso. Purtroppo i tagli ai fondi per la disabilità continuano e preoccupano; se pensiamo poi alla fase terminale della vita o al dolore cronico, c’è un grande bisogno di cure palliative e di hospice ora assolutamente insufficienti anche nella nostra regione. Torno a dire però: anche se avessimo la possibilità di dare tutte le cure possibili ma mancassimo di offrire buone relazioni non daremmo agli ammalati ciò di cui hanno bisogno come il pane e più del pane. Ricordo sempre che la solitudine ammazza prima della morte. Certo, avere anche degli ambienti belli che accolgono i malati, gli anziani è cosa buona, ma la persona va curata in tutta la sua interezza.
Allora che cosa manca ai nostri territori?
Manca una mobilitazione sia per gli anziani e malati che stanno a casa sia per quelli che sono nelle strutture. Questo manca ancora molto e mi pare che anche le parrocchie, sia dal punto di vista pastorale che caritativo debbano aumentare i loro sforzi per raggiungere “i numerosi soli”; a tal proposito potrebbe essere utile organizzare una mappatura precisa del territorio per conoscere situazioni e bisogni e poter agire di conseguenza. Non si può continuare a trovare anziani morti in casa dopo giorni! Ovvio, questo rischia di succedere di più in città che in paesi piccoli, ma capita purtroppo. Bisognerebbe individuare delle «sentinelle di zona» che segnalino i bisogni, e soprattutto è necessario poter contare su persone che costruiscano con loro relazioni di cura. Bisogna, per esempio, riuscire a far percepire agli anziani che la loro vita ha avuto ed ha ancora un grande valore, che sono importanti, che non stanno aspettando la morte e che non sono un peso ma stanno vivendo una stagione della vita sempre preziosa.
La vita e il fine vita: cosa non c’è nella legislazione per dare invece spazio all’anima ed al cuore oltre che alla fede?
Manca
ancora parecchio! Potrebbe essere utile ritornare alla scuola di colei che ha
inventato le cure palliative e gli hospice,
la Cecile Sanders, la quale ci ha insegnato a considerare «il
dolore totale della persona malata». È un dolore certamente
fisico ma anche spirituale e psicologico, ed è un dolore anche relazionale.
Allora a me pare che un certo cammino per il controllo del dolore fisico sia
stato fatto; c’è ancora molto da fare per rispondere al dolore totale (total pain). In questo senso la legge
sulle cure palliative del 2010 ha dato ottime indicazioni ma ancora troppo
disattese nella loro applicazione quantitativa e qualitativa. Ma quello che
secondo me rischia di essere sempre a rischio in ogni legislazione che tratti
la questione del fine-vita è proprio la mancanza di quel riconoscimento incondizionato
della dignità della persona a favore di una visione funzionalista
dell’esistenza e di un’errata interpretazione del concetto di qualità di vita. E
questo può essere molto pericoloso. Ci sono poi questioni legate più
direttamente ai trattamenti sanitari come il considerare idratazione e
alimentazione, quando non siano inutili o gravosi per il paziente, come
trattamenti sanitari e quindi giustificare la loro sospensione arbitraria.
Tutto questo mi porta a sottolineare l’importanza dell’obiezione di coscienza
da parte di medici qualora vi fosse la richiesta, soprattutto da tutori e
fiduciari, di sospendere un trattamento terapeutico proporzionato.
Invecchiare in campagna vuol dire sorridere alla vita fino all’ultimo respiro: è un sogno possibile?
È un sogno auspicabile. Noi al Cottolengo abbiamo centenari che vivono in una stanza e benedicono la vita. Quindi invecchiare in campagna può essere qualcosa che aiuta a sorridere alla vita fino a che c’è qualcuno attorno che ti aiuta a sperimentarne la bellezza. Fin dal primo giorno della nostra esistenza noi, almeno in parte, diventiamo anche quello che gli altri ci fanno essere. Se un genitore disprezza un bambino e gli ripete ogni giorno che non è capace a far nulla, quel bambino sarà sicuramente un bambino infelice con una disistima verso se stesso impressionante. E questo vale anche per gli anziani.
Il sorriso dei malati nelle nostre case è un dono di Dio, come possiamo farlo crescere ed aumentarlo?
Penso non ci sia soddisfazione maggiore per un operatore sanitario che vedere il sorriso del malato. Ora il sorriso non si improvvisa. La parola chiave, lo ripeto ancora una volta, è relazione. Questo sorriso è un dono di Dio “mediato” dalla relazione di qualcuno che ti fa sentire che la tua vita è preziosa e non un peso. Quanto è prezioso far sentir loro l’importanza della loro presenza nella comunità civile. Gli anziani, come dice sovente Papa Francesco, sono la saggezza e la memoria di un popolo. E allora non possiamo non dire loro che ciò che hanno fatto nella loro vita per noi è importante. E se poi sono persone credenti, non possiamo non far sentire loro quanto è preziosa la loro unione alla sofferenza di Cristo per la salvezza del mondo. E allora è bello vedere anziani o malati che pregano e dicono che, con il Signore, vogliono fare del bene al mondo. Il sorriso, come la gioia è “un risultato indiretto”: più noi avremo relazioni significative con i nostri anziani e malati più il loro sorriso crescerà.
Si vive e si muore ma con dignità e quando è possibile con serenità: in questa società del successo e della bellezza ad ogni costo sta venendo meno l’attenzione all’anima e al cuore oltre che alla fede?
Sì, stiamo vivendo quella che il papa chiama crisi antropologica dove la persona non è più al centro. Ora si impone un’antropologia funzionalista per la quale la dignità della vita è data dalla capacità funzionale. C’è tanto da recuperare. E poi pensare che le famiglie se non sono supportate si prendano cura dei malati è un’utopia. Dobbiamo lavorare su tutti i fronti. Tutti insieme pubblico, privato e comunità cristiana.
Gian Mario Ricciardi
Articolo tratto da La Voce e il Tempo dell’8 settembre 2019